E’ probabile che una delle qualità migliori degli artisti che guardano sempre in avanti dimenticandosi del disco appena pubblicato sia quella di evitare il salotto preferendo la ricerca di stanze senza sedie nelle quali mettersi quasi in discussione.
E’ quindi del tutto normale che, nell’arco di una carriera lunga, fatta di molti dischi e canzoni, ci siano periodi cosiddetti di transizione nei quali l’artista ha in mente qualcosa a volte ben definita altre più fumosa e dai contorni incerti. Penso appartengano a quest’ultima categoria i due album che Lou Reed incise per la Arista nel 1978 (“Street hassle”) e nel 1979 (“The bells”).
Reed veniva da almeno tre grandi dischi, “Transformer” (1972) “Berlin” (1973) e “Coney island baby” (1976) [i titoli da cui partire nel caso voleste cominciare a frequentarlo], ed in generale da anni passati sul “lato selvaggio” con un’intensa attività promozionale discografica suggellata dalla pubblicazione di due dischi dal vivo e di quell’assurdo chiamato “Metal machine music”. Parliamo di transizione per comodità, ed anche perché alcune cose, e per fortuna che è così, sfuggono quando ti ci avvicini.
A “Street Hassle”, corto circuito di visionarietà e nichilismo, venne riconosciuto il merito di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda del Punk e al suo autore la capacità di non accontentarsi né del ruolo semi-cantautoriale, né della formidabile apertura di credito garantita dai Velvet Underground. Come David Bowie, Peter Gabriel e Robert Fripp, Lou Reed guardava dritto in avanti non sottovalutando neanche gli aspetti tecnici della registrazione come il Processo Binaurale.
Gli episodi più belli sono quelli che si distaccano con evidenza dai canoni tradizionali e citerei almeno “Real good time together” , sintonizzata sul canale Suicide, e la title track (con un sorprendente hidden credit da parte di Springsteen), undici minuti suddivisi in tre movimenti: (a) Waltzing Matilda con accompagnamento di archi, basso e organo in salsa Velvet, (b) Street hassle, solo basso, voce e chitarra per avambracci scoperti, (c) Slipaway, fuga finale psichedelica, forse la sua “The end” e futuro classico.
Il certo per il quasi incerto di “Street hassle” cede il passo l’anno successivo al certo per l’incerto di “The bells” che è assai più sfuggente ed intricato, con temi stralunati ed un cipiglio stravagante, dal sapore agrodolce, ondivago fino al punto di farti quasi saltare i nervi ed anzi, sembrerebbe proprio questo l’obiettivo dell’autore semmai “The bells” ne avesse avuto uno. Uno stato confusionale esteticamente interessante condiviso con Nils Lofgren e Don Cherry accreditati come autori assieme, fra gli altri, a Marty Fogel e Ellard Boles, a testimonianza di una diversa dimensione creativa supervisionata in Sede di produzione da Michael Fonfara.
Se la prima parte del lavoro, pur spezzettata dall’alternarsi di una certa varietà di registro può contare su punti di riferimento abbastanza identificabili, la seconda con soli tre lunghi pezzi rappresentava sicuramente un tentativo del tutto particolare tanto che, e non a caso, qualcuno negli States citò addirittura il Miles Davis di “On the corner” volendo sottolineare il ricorso a pochissimo materiale di partenza visto che sia “All through the night” (scritta con Don Cherry) sia “Families” giocano sulla ripetizione di un’unica frase allontanandosi di molto dal formato tradizionale con fiati e tastiere a replicare senza sosta le loro parti così come Lou che canta senza soluzione di continuità la sua personale visione decadente delle cose. Uno scherzo però rispetto al buco nero di “The bells” che ha un’introduzione lunghissima ed ossessiva basata sulla ripetizione di un solo accordo che si muove solo per il passaggio della terza da minore a maggiore. Una specie di voragine in cui finiscono frasi improvvisate, vociare intermittente e rullare di timpani e gong fino ad un finale che non si risparmia un’inevitabile enfasi.
Nel biennio 78/79 Lou Reed e Patti Smith sembravano camminare appaiati, finendo per pubblicare quasi simultaneamente i loro dischi ed in una qualche misura anche la chiusura del cerchio per Patti risentì di incertezze e qualche pretenziosità, ma volendo tornare alle campane care ad entrambi gli autori, quelle di Lou Reed, rispetto al tripudio festante che salutava la personale rinascita di Patti Smith in chiusura di “Easter”, erano di tutt’altro nebuloso tenore.
Anto (gennaio 2011)
Tracklist (Street Hassle):
Side One:
1.”Gimmie Some Good Times”
2.”Dirt”
3.”Street Hassle”
A. “Waltzing Matilda”
B. “Street Hassle”
C. “Slipaway”
Side Two:
1.”I Wanna Be Black”
2.”Real Good Time Together”
3.”Shooting Star”
4.”Leave Me Alone”
5.”Wait”
Tracklist (The Bells):
1.”Stupid Man” –
2.”Disco Mystic”
3.”I Want to Boogie With You”
4.”With You”
5.”Looking for Love”
6.”City Lights”
7.”All Through the Night”
8.”Families”
9.”The Bells”