Fonemi intraducibili, articolazioni di suoni rochi e profondi, a tratti solo respiri dolenti, bisbigli o pianti cangianti in lamento. Note liquide che scivolano affaticate tra brusii e sussurri metallici. Un linguaggio misterioso e alieno, inaspettatamente familiare seppure inequivocabilmente altro.
È la voce suggestiva e straniante delle Pietre sonore di Pinuccio Sciola: non suono disciplinato nel tessuto ordinato di una partitura musicale ma materia fisica vibrante, alla quale lo scultore si accosta con la stessa tensione dialettica con cui si rapporta alla fisica plasticità della materia litica. Perché il suono è, per Sciola, sostanza intrinseca alla pietra.
Un’intuizione, questa, che ha portato l’artista ad individuare, in anni recenti, una inedita dimensione della prassi scultorea e a riattraversare territori già noti, esplorandone nuove possibili direzioni, fino a tracciare un itinerario innegabilmente singolare e difficilmente uguagliabile.
L’insistere sulla medesima materia litica affrontata negli anni Ottanta e Novanta, tuttavia, assume ora connotazioni differenti. Sciola non cede solo alla seduzione della pietra, al fascino della materia primordiale, alla imponente monumentalità di basalti consumati nello scorrere infinito dei giorni. No, il suo è un abbandono nuovo, un incanto a cui non può e non vuole sottrarsi: è la voce del Tempo – prigioniero antico incastonato tra i cristalli di rocce magmatiche nate agli albori del Cosmo – che lo chiama, e lui, ammaliato, si lascia catturare.
Nato in un’isola di pietra, l’artista ha maturato nel tempo la convinzione che questa materia antica, che lui stesso definisce suggestivamente «spina dorsale del mondo», sia la memoria tangibile dell’origine dell’universo e che trattenga in sé, imprigionata nelle sue concrezioni, la storia codificata del suo dipanarsi nel tempo.
Una memoria ancestrale la cui voce struggente, annichilita di intimi trattenuti respiri, sgorga oggi dalle viscere profonde e segrete delle pietre-sculture attraverso le fenditure sensibili create dall’artista, per ricongiungersi alla voce di un tempo presente: e questa, indubbiamente, appare essere la declinazione di un nuovo ed avvincente statuto estetico.
Le Pietre sonore rappresentano, infatti, gli esiti più alti e significativi della stagione matura del percorso di Sciola, un percorso lungo quasi un cinquantennio che, sebbene composito e variegato, ha saputo preservare una chiara coerenza progettuale ed una originale cifra estetica e stilistica.
Un percorso nato sul finire degli anni Cinquanta, quando Sciola, non ancora diciottenne, muove i primi passi nell’ambito della sperimentazione plastica, seguendo una vocazione che già da bambino lo aveva portato a cimentarsi con il disegno ed il modellato in creta fino alla scoperta della pietra e delle sue inesauribili suggestioni.
Sono gli anni della formazione, ma già le sue sculture rivelano l’impronta di una forte personalità artistica che, nel tempo, si orienta progressivamente verso una rigorosa essenzializzazione delle forme, in un procedere che è sempre più colloquio attivo, confronto dialettico con la materia che abilità tecnica. Per Sciola, infatti, la pietra non è mai sostanza inerte da scolpire o modellare, ma piuttosto entità animata di vita propria, alla quale egli sente l’urgenza di accostarsi in un dialogo aperto e dinamico. La stessa urgenza che, nel corso degli anni, lo chiama a confrontarsi con arti e culture differenti, con intuitiva sensibilità e curiosità esigente, alla ricerca di continui stimoli e conferme per la sua arte.
Negli anni Sessanta il Magistero d’arte di Firenze, nel decennio successivo l’Accademia di Salisburgo con Emilio Vedova e Oskar Kokoschka, e ancora gli incontri con Giacomo Manzù ed Henry Moore, il Messico con David Alfaro Siqueiros. L’Europa, l’America Centrale, l’Africa: tappe importanti di un percorso formativo, artistico e culturale intenso, che porta Sciola nei luoghi dove più forte e percepibile è il richiamo “all’espressione primigenia”. E le opere realizzate tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – quando cioè il sistema teorico dell’artista, assimilata ormai da tempo la lezione dei maestri della grande tradizione scultorea italiana ed europea, si organizza secondo ben precise direttrici antropologiche – recano tracce sedimentate e consapevoli di queste ricognizioni.
Così, accanto ad opere che offrono una rilettura volutamente non mediata di motivi appartenenti alla cultura della sua terra (dalle protomi taurine alle linee centinate delle porte tombali, ai petroglifi antropomorfi), una sottesa coerenza antropologica porta l’artista a realizzare Steli in trachite dalle superfici ruvide, decorate con geometrismi spiraliformi echeggianti le iconografie simboliche delle civiltà precolombiane, a lungo studiate nei viaggi in Messico e in Perù, o Sculture lignee sinteticamente sbozzate in asciutte sembianze antropomorfe, le cui severe riduzioni formali rimandano alle atmosfere potenti e suggestive delle culture primitive africane.
Per quanto composita negli esiti, tuttavia, la ricerca condotta da Sciola in questi anni rappresenta una fase significativa e cruciale del suo fare artistico, e non è un caso che le opere realizzate nella prima metà degli anni Ottanta compaiano in un importante ciclo di mostre tenute tra il 1983 e il 1986 in alcuni tra i più interessanti musei d’arte moderna della Germania.
La ricerca di un comune denominatore tra le grandi culture archetipali della storia dell’umanità, al di là dell’inevitabile eterogeneità delle grammatiche espressive incontrate e adottate, porta l’artista a scarnificare sempre più insistentemente la “forma” per indagare i “principi” profondi e impenetrabili dell’universo.
Dalle rappresentazioni antropomorfe dei primi anni alla figurazione aniconica degli anni Ottanta: il processo di riduzione formale che Sciola ha via via operato, orienta in modo sempre più definito e inequivocabile la sua ricerca verso quella dimensione geometrica, astrattizzante e minimalista, che caratterizza l’avvincente ed originale produzione degli anni Novanta, una produzione che pare teorizzare una sorta di esegesi animista della Natura e del Cosmo.
Nella stagione che chiude il Millennio, Sciola scopre nuove strade e nuovi esiti, affrontando con rinnovata convinzione un tema già percorso anni addietro, quello delle “pietre legate”, blocchi di trachite sulle cui superfici affondano incisioni sottili, come corde tese a imbrigliare una materia ribelle, restia a riconoscersi statica e priva di vita. Di esse, nel passato, lo scultore aveva solo intuito la vitalità pulsante di una materia apparentemente inerte, una materia la cui esistenza era stata troppo a lungo “negata”, ora egli ne percepisce distintamente l’anima, la vita che vibra sotto la scorza dura di stratificazioni millenarie, la volontà formicolante e l’urgenza di un’entità che lotta per affermare la propria identità.
Così, accanto alle Pietre legate appaiono Forme verticali e Steli colonnari, affusolate forme aniconiche dai forti contrasti materici, che dietro i ruvidi manti lasciano intravedere piani straordinariamente levigati, superfici “mute” che invitano ad insinuarsi nelle segrete profondità della materia per giungere a coglierne l’essenza più intima, lungo i tagli netti e acuminati dalle geometrie verticali, che lo scultore realizza penetrando la pietra con violenza sensuale, affondando in essa affilati dischi metallici, rincorrendo il ricordo di fenditure analoghe, modellate dal scorrere naturale del tempo.
Il percorso gnoseologico di Sciola si delinea, dunque, in modo sempre più chiaro ed esplicito, tanto che dopo aver caparbiamente indagato nella materia per ritrovare il nucleo del mistero della vita e averne percepito l’anima ancestrale, l’artista è ormai pronto ad andare oltre, nel tentativo di superare la finitezza del mondo.
Attingendo alle fonti del pensiero e, particolarmente, alle teorie degli antichi filosofi greci – all’idea pitagorica di Cosmo come ordine delle cose, e più ancora, alla rigorosa e razionale rappresentazione dell’universo fisico del Timeo platonico – egli elabora, così, una suggestiva e visionaria teoria cosmogonica, ritrovando nel microcosmo di magmi cristallizzati nelle viscere di neri basalti, la sconosciuta vastità del macrocosmo e le sue infinite costellazioni. Per questo, a partire dai primi anni Novanta, l’artista sceglie di utilizzare per le sue opere quasi esclusivamente pietre basaltiche, perché i basalti, più delle trachiti o dei graniti, conservano la memoria cosmica di un tempo lontano, fatto di lave incandescenti, di magmi fluidi e arrossati, di impasti raggrumati e raffreddati nella dolorosa genesi di un Caos primordiale.
E proprio la riflessione sul cosmo porta Sciola a realizzare il Cielo di pietra: opera monumentale fortemente evocativa che riflette l’ordine cosmico e la presenza pulsante dell’“altrove” e che, come gran parte delle opere di questi anni, evidenzia anch’essa un’intrinseca ambiguità formale: da un lato corazza antica e impenetrabile dove le ferite lasciate dal tempo appaiono ormai come cicatrici sbiadite; dall’altro specchio di pietra dai contorni irregolari e sfrangiati, superficie levigata che cattura la luce nera di presenze siderali, cui si sovrappongono, discrete, le possibili rotte celesti tracciate dall’artista per non smarrirsi nell’infinità dell’universo.
La presenza dell’artista, a questo punto del percorso, appare tanto controllata e contenuta da essere si presente ma ormai quasi inavvertibile, e ciò fa sì che le opere appaiano come puri frammenti di materia sui quali la natura ha depositato le tracce vive di licheni colorati, rocce che conservano le scorze e le cortecce naturali, o pietre lasciate volutamente intatte, su cui egli interviene aprendo varchi sempre più minimali, a segnare passaggi filiformi per penetrarne l’essenza più intima e farsi interprete del loro mistero.
In questi stessi anni Sciola ha tracciato una linea di ricerca parallela, approfondendo la tematica del binomio “natura/cultura”, materia oggi drammaticamente attuale che, fin dagli inizi della militanza artistica, lo ha portato ad operare sulle urgenze socio-ambientali della realtà umana e naturale, attuando una strategia di ridefinizione del paesaggio che muove da imprescindibili premesse di carattere culturale, secondo cui si rende necessario attivare stimoli percettivi idonei che consentano una corretta integrazione dialettica con lo spazio ambientale.
Nascono da queste premesse i Semi di pietra, forme ambigue dense di osmotici ordini di sensi, embrioni gravidi di fertile materia viva, schegge convesse che affiorano fra gli orli slabbrati di scorze rocciose, vulve schiuse nel compiersi dell’”evento”, nucleo organico di pietra che attende di generare altre pietre.
Ancora una volta Sciola insiste su una metafora “biologica”: i Semi di basalto diventano così, attraverso un coerente slittamento di senso, organismi vegetali viventi, come già, anni addietro, similmente lo erano state le Spighe in trachite, in un procedere spiraliforme che è un andare avanti regolare ed incessante, ma anche, via via, un irreversibile processo di azzeramento, un’immersione nel nucleo originario dell’universo per consentire, con il compimento del sacro rito della fecondazione, il rinnovamento della Materia, della Vita stessa.
Nel 1996, nel corso di un intervento ambientale – la Semina delle pietre – a Niederlausitz, in Germania, Pinuccio Sciola tracciò un solco nei pressi di una miniera in disuso, su una terra lungamente violata e resa sterile da saccheggiamenti rapaci e indifferenti, e vi seminò alcuni dei suoi semi di pietra: gesto antico di un uomo nato contadino che rinnova il rito ancestrale della fecondazione, gesto pregnante e attuale di un artista che spargendo i ‘semi’ della sua arte nel grembo della Terra, la feconda e la rigenera, riconciliandosi con essa nella promessa di nuova armonia e nuova vita.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, un ulteriore sviluppo di questa poetica così intensamente visionaria, porta Sciola a ritornare ancora sui suoi passi – là tra le pieghe segrete di impasti sopiti dove già aveva scavato, frugato, sondato – alla ricerca di una dimensione non ancora esplorata ma reale e concreta, alla ricerca degli imprevedibili e imprendibili alfabeti della pietra.
Inconsapevolmente, già negli anni in cui teorizzava le origini siderali del basalto, lo scultore non indagava solamente il mistero muto dell’anima della pietra ma anche la sua storia e, dunque, la sua voce. Dopo essere penetrato nei blocchi rocciosi con la cruda verticalità di tagli e spaccature profonde, che lasciavano intravedere, a tratti, la rappresa matrice primordiale, Sciola spinge ancora oltre la sua indagine, convinto che se la pietra è materia viva, deve anche poter comunicare; ma convinto, soprattutto, che sia la pietra stessa a volere che lui liberi le sue parole. Per questo, sebbene per definizione la pietra sia considerata ”muta”, egli ne ricerca caparbiamente la voce e, ascoltando oltre gli apparenti silenzi, riesce a percepire e liberarne il suono struggente, quel lamento lontano di respiri imprigionati.
Da allora la ricerca sulle Pietre sonore è diventata il fulcro nodale del lavoro di Pinuccio Sciola. Lui le chiama semplicemente pietre, o, a volte, sculture: tecnicamente sono blocchi di basalto, di dimensioni estremamente variabili, attraversati da incisioni regolari e profonde, che creano una fitta sequenza di lamine verticali, la cui vibrazione produce onde: suoni fisici che provengono dalla materia abilmente predisposta dallo scultore e che corrispondono inequivocabilmente alla voce della pietra. Una voce, si è detto, roca e affaticata che, attraversando il Tempo e gli spazi siderali, è emersa dalle viscere segrete della materia, scivolando faticosamente in superficie lungo le membrane litiche delle “arpe di pietra”, veri e propri varchi temporali che rendono uniche le Sculture sonore.
E, se da un lato, esse rappresentano indiscutibilmente uno degli esiti più alti e intensi del percorso artistico di Sciola, altrettanto rilevante e sorprendente è il fatto che i materiali sonori prodotti dalle pietre, così nuovi e “altri”, abbiano stimolato esiti originali nell’ambito della sperimentazione musicale contemporanea, una conferma della grande attualità dell’arte di Sciola, “suono di pietra” che esiste nell’immaterialità di uno spazio estetico assolutamente contemporaneo.
Giannella Demuro (2006)
Pinuccio Sciola
San Sperate (CA) 1942
Pinuccio Sciola, dopo il Liceo Artistico di Cagliari frequenta il Magistero d’arte di Firenze e, dal 1965, l’Accademia Internazionale di Salisburgo dove segue i corsi di Kokoscha, Kirchner, Vedova e Marcuse. In questo stesso periodo compie viaggi di studio in molte delle maggiori città e dei musei d’Europa e conosce Manzù, Sassu, Moore, Wotruba. Nel 1967 trascorre un anno in Spagna per studiare all’Università della Moncloa a Madrid. L’anno successivo, invece, è a Parigi.
Tornato in Sardegna avvia, nel suo paese natale, l’importante esperienza artistica e sociale dei Murales, che trasformeranno San Sperate in un autentico “paese museo” e nel 1973 si reca a Città del Messico, dove lavora con il grande muralista David Alfaro Siqueiros.
Sin dal 1960 Sciola espone le sue opere in mostre sempre più importanti: nel 1976 la Biennale di Venezia, nel 1984 la Rotonda della Besana e Piazza degli Affari a Milano; nel 1985 la Quadriennale di Roma e, fra l’86 e l’87, una grande mostra itinerante tocca le più importanti città della Germania.
Negli anni ’90 le sculture di Sciola sono esposte nel Parco del Castello di Ooidonk in Belgio, nel Palace Trianon di Versailles e nel Parco del Centro Kunst Project di Barndorf Bei Baden, presso Vienna. Nel 1996 nascono le pietre sonore, esposte per la prima volta nel 1997 a Berchidda, in Sardegna. Nel 2000 sue opere sono sia all’Expò Internazionale di Hannover che all’Havana. Nel 2002 il Müvészet-Malom Szentendre di Budapest dedica all’artista una grande mostra antologica e, agli inizi del 2003, Sciola inizia una collaborazione con l’architetto Renzo Piano, che sceglie una imponente Pietra Sonora per la Città della Musica a Roma. Nell’estate dello stesso anno, Sciola espone una nuova serie di monumentali sculture sonore sulla piazza della Basilica Inferiore di Assisi.
Le sculture di Sciola sono oggi esposte in numerose collezioni pubbliche e private in tutta Europa.
Pinuccio Sciola studied first at the Artistic Lyceum in Cagliari and later at the Art Teachers’ Training College in Florence and, from 1965, at the International Academy in Salzburg, where he attended lessons by Kokoscha, Kirchner, Vedova and Marcuse. On the same years he travelled through Europe visiting its main cities and museums and he met Manzù, Sassu, Moore, Wotruba. In 1967 he spent a year in Spain studying at the Moncloa University in Madrid. The following year he was in Paris.
Back in Sardinia, he turned his native village San Sperate into a “village-museum” thanks to the arti-stic and social experience of Murales (mural paintings); in 1973 he worked with the absolute master of mural art David Alfaro Siqueiros, in Mexico City.
Sciola exhibits his works of art since 1960: in 1976 at the Venetian Biennale, in 1984 at Rotonda della Besana and Piazza degli Affari in Milan; in 1985 his sculptures are exposed at Rome Quadrennial and between 1986 and 1987 he starts a touring exhibit through the most important cities in Germany.
In the Nineties Sciola’s sculptures are exposed in the park of Ooidonk Castle in Belgium, at Palace Trianon in Versailles and in the Park of the Kunst Project Centre in Barndorf Bei Baden, near Wien. In 1996 Sciola creates the sound stones which are exhibited for the first time in Berchidda (Sardinia) in 1997. In 2000, his works of art are at the International Expò in Hanover and in La Havana. In 2002 the Müvészet-Malom Szentendre in Budapest dedicates a wide anthological exhibit to the artist and at the biginning of 2003, Sciola starts a cooperation with the architect Renzo Piano, who chooses an imposing Pietra Sonora for the Città della Musica in Rome. In the same year Sciola exposes a new series of monumental sonorous sculptures on the square of the Basilica Inferiore in Assisi.
Sciola’s sculptures are in several public and private collections all around Europe.
Mostre principali / Main shows
1961 Milano, Palazzo Durini
1968 Barcelona (E), Salón Ricard
1973 Ciudad do Mexico (MX), Salón de la Asociación de Corresponsales
Extranjeros en Mexico
1975 Ciudad do Mexico (MX), Galería José Maria Velasco
1976 Venezia, Biennale Internazionale d’Arte
Bologna, Piazza Santo Stefano
1979 Kirchheim unter Teck (D), Galerie Kroger
1980 Stuttgart (D), Istituto Italiano di Cultura
1981 Paris (F), Espace Da et Du
1983 Spoleto, Villa Redenta
1984 Milano, Rotonda della Besana
1985 Milano, Piazza degli Affari
1986 Roma, XI Quadriennale
1986/87 Leverkusen, Städtisches Museum
Duisburg, Wilhem – Lembruck – Museum der Stadt
Heidelberg, Neckar – Vorland, Kunstverein der Stadt
München, Landeshuaptstadt
Köngen, Römisches Ausgrabungsgëlande der Gemeinde
Saarbrüchen, Am Staden, Stadtgalerie der Stadt
Hamburg, Ekbufer Oelvelgonnen Freie und Hausestadt
(mostra itinerante in Germania / touring show in Germany)
1988 Munchen (D), Galerie Ruf
1990 Pisa, Piazza del Duomo
Duisburg (D), Wilhelm-Lehmbruck-Museum
1994 Parigi (F), Galerie Point-Jal
Gent (B), Kasteel Ooidonk
1995 Versailles (F), Trianon Palace
Berlin (D), Cottbus/Niederlausitz Biennale
1996 Wien (A), Biennale Niederosterrich
1997 Sassari, Fiera Internazionale
1998 Torino, Fiera del Libro
Milano, Teatro alla Scala, Concerto per sculture sonore
1999 Frankfurt (D), Buckmesser
Stuttgart (D), Galerie Merkle
2000 Havana (CU), Fiera Internazionale del Libro
Firenze, Facoltà di Architettura
Hannover (D), Expo
Saarbrüchen (D), Marie Schule
2001 Genova, Euroflora
Como, Villa Olmo
Saarbrüchen (D), Rettorato dell’Università
Berchidda (SS), Semida – Museo arte natura
2002 Budapest, Müvészet-Malom, Szentendre
Roma, Auditorium, Parco della Musica
2003 Assisi, Piazza della Basilica Inferiore
Venezia, Spazio Thetis
2004 Lussemburgo, varie sedi (open air)
Renzo Carboni
serenella