Lush Rimbaud – The sound of the vanishing era (2010)

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Spesso si sente parlare di come il disco (che sia su cd o vinile poco importa) come supporto alla diffusione della musica stia per scomparire.

Aldilà del fatto che discorsi del genere vengono sempre fuori quando è in atto qualche piccola rivoluzione tecnologica, infatti lo si è detto per i libri quando uscirono i primi e-book (ed ora che è uscito l’iPad è tornato di moda), lo si è detto per i quotidiani e i settimanali (tornata di moda anche questa sempre grazie all’iPad 😀 ), lo si è detto per le sale cinematografiche con l’arrivo delle videocassette, lo si è detto addirittura per i musicisti in carne ed ossa all’indomani della commercializzazione delle prime drum-machine e dei primi campionatori a prezzi umani. Ecco aldilà di questo modo insensato di reagire alle novità che viene poi smentito dai fatti, infatti i libri esistono ancora così come i giornali e soprattutto ci sono ancora i musicisti (alla faccia di qualsiasi programma di sequencing, di campionamento o di simulazione varia e variegata) ciò che cambia semmai è l’offerta e la possibilità (aumentata e diversificata) di fruizione.

Altrettanto sta avvenendo nel campo musicale. E’ vero che di dischi se ne vendono molti di meno a causa del (o, a seconda dei punti di vista, grazie al) file sharing e di tutte le possibilità che la tecnologia digitale ha introdotto e sta introducendo (che va detto ha trovato in passato terreno fertilissimo per colpa dei costi alti dei dischi stessi e in Italia in misura ancora maggiore viste le tasse assai poco lungimiranti, questo discorso lo si può applicare tranquillamente anche al mercato dei videogiochi, ed una volta scappati i buoi hai voglia a cercare di rimetterli dentro il recinto attraverso leggi penali e balzelli siae) però il fascino che ha un disco, se in vinile ancor di più, rispetto ad un evanescente file digitale non ha eguali. Il fascino che può dare una copertina e il messaggio che può trasmettere sono estremamente importanti, tanto da diventare parte integrante del disco stesso, riuscireste mai ad immaginare l’omonimo album dei Beatles diverso o l’omonimo dei Metallica? Le loro copertine nella loro semplicità sono talmente potenti da aver assunto vita propria tant’è che comunemente uno non lo si chiama The Beatles ma il White Album e l’altro è più conosciuto come il Black Album invece di Metallica.

Ovviamente non per tutti i dischi è così, ci vogliono anche i contenuti chiaro, però il biglietto da visita rappresentato dalla copertina può essere fondamentale nel comunicare i possibili contenuti o semplicemente per attirare la nostra attenzione.

La copertina di The sound of the vanishing era, ad opera di Rocco Lombardi, che raffigura l’intellettuale anarchico Errico Malatesta (teorizzatore della differenza tra anarchia e anarchismo) a cavallo di un “muccaleonte” spaziale con l’Europa come mantello ci introduce egregiamente alle tematiche contenute nel secondo album degli anconetani Lush Rimbaud.

La forma musicale scelta dai Lush Rimbaud per parlare di anarchia, di politica, società civile e delle sue contraddizioni è quella di un sound potente e compatto che si muove su più fronti del rock alternativo. Partendo dall’iniziale title-track dal sapore psichedelico di scuola Motorpsycho (linee vocali escluse), passando attraverso sonorità d’ispirazione Jesus Lizard e di scuola Dischord, si arriva a brani che profumano di math rock, il tutto su una base profondamente post-punk con una leggera prevalenza delle influenze degli Wire e soprattutto dei Killing Joke ed addirittura con delle reminiscenze dei Wall of Voodoo su God Trip. Sostanzialmente i Lush Rimbaud hanno dato forma ad un sound che non fa sconti e picchia duro ma che non disdegna la melodia in cui le chitarre si intrecciano e si incastrano perfettamente con suoni sintetici e le linee di basso e dove la batteria (mai banale) guida e detta tempi e cambi in maniera egregia, davvero buono il lavoro fatto in fase produttiva (curato dal quartetto anconetano insieme a Fabio Magistrali) tranne qualche penalizzazione come volume sui tom, comunque la qualità degli otto brani che formano l’album è sempre buona dando un ottimo supporto alle linee vocali e ai testi che dall’opera di Malatesta prendono spunto.

A voler esser pignoli proprio le linee vocali e i testi sono l’unico punto debole di The sound of the vanishing era, le prime per esser più che altro declamate o urlate e molto povere di linee melodiche, i secondi per essere solo ed esclusivamente in inglese, capisco la voglia di avere un suono internazionale però visti i temi trattati e il riferimento diretto a Errico Malatesta un minimo di coraggio a cantare anche in Italiano e perché no con delle linee più melodiche me lo sarei aspettato (Capovilla insegna 🙂 ).

Del primo lavoro dei Lush Rimbaud conosco assai poco pertanto riguardo l’evoluzione del loro sound non mi posso esprimere, relativamente a questa seconda opera non si può parlare di capolavoro o di novità però di qualità certamente si! Perciò non ho paura a dire che The sound of the vanishing Era risulta nel suo insieme quantomeno un buon album che consiglio senza indugio (in particolare a chi ama i generi e le band citate), perché ci propone una band che credo abbia ampi margini di crescita, se i nostri riusciranno a superare la paura di confrontarsi con la propria lingua potremmo finalmente avere una band (Italiana) affine da affiancare a Il Teatro Degli Orrori, ditemi se è poco.

 

 

 

 

Mario (settembre 2010)

 

 

 

 

Tracklist:

1. Sounds from a Vanishing Era

2. 2009 Crusade

3. They Make Money (We Make Noise)

4. God Trip

5. Space Ship

6. Sounds from a New Era

7. Changing Gear

8. The Chameleon

 

 

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