C’è aria di festival, all’idroscalo di Milano. E anche se di un vero e proprio festival non si tratta, la quantità e la qualità dei gruppi presenti in scaletta attirano progressivamente una moltitudine di persone che ci si aspetta solo dai grandi eventi.
Si comincia alle tre meno un quarto sotto un sole talvolta cocente, talvolta velato da nuvole che offrono un po’ di riparo ai temporanei occupanti del prato. Mentre la gente si sposta verso le transenne, aprono le danze i Super Elastic Bubble Plastic, trio squisitamente rock dai suoni potenti ed energici. In un primo momento si mostrano un po’ timidi all’occhio del non troppo interessato pubblico ma, canzone dopo canzone, guadagnano sempre più attenzione e consensi da parte di chi, in teoria, ha già la testa proiettata verso gli headliner di serata.
C’è da dire che l’organizzazione non si spreca in luci o coreografie, dà quasi l’impressione che sul retropalco si batta un po’ la fiacca. Forse è anche questo che fa perdere qualche punto show ai ragazzi che, nonostante tutto, offrono 45 minuti circa di ottima musica, strappando più di un applauso e parecchie grida di approvazione. Oltre alla voce roca e grattata del cantante/chitarrista, batteria e basso si distinguono per non sbagliare mai un colpo. Di sicuro un ottimo inizio.
Si inizia davvero a soffrire il caldo, durante il primo cambio palco. E, di conseguenza, aumenta la sonnolenza del primo pomeriggio. Sarà questo, o forse sono le Belladonna, gruppo per tre quinti al femminile che propone un glam metal pesantemente edulcorato, condito da scelte di stile che forse erano già abbastanza kitsch trent’anni fa (vedi abat-joure adagiata sulla tastiera o rose avvolte attorno all’asta del microfono). Musicalmente non attirano, e non bastano le movenze da gothic bjork della cantante solista ad evitare pesanti sbadigli alla stragrande maggioranza dei presenti. Sembra di assistere ad una brutta copia dei Lacuna Coil, il che è tutto dire.
Chiusa la parentesi di forte perplessità, si torna col rock di quelli con la r maiuscola, perché è il turno dei Duff mcKeagan’s Loaded, band capitanata dall’ex bassista dei Guns and Roses, qui in versione iper ossigenata. La gente apprezza, e fa bene, perché nonostante l’età non più fiorente dei 5 membri, la carica è alta e la distorsione massima. Certi stili non tramontano mai e i Loaded ne sono l’evidente prova: fanno salire l’atmosfera e risvegliano tutti dal torpore, proponendo canzoni che una dopo l’altra appassionano gli amanti del genere e non, e dalle retrovie si notano parecchie decine di mani e di “corna” rivolte al cielo. Verso la chiusura dei loro 60 minuti buoni di esibizione c’è tempo per una vera e propria chicca: il silenzio viene rotto dalle note di Paradise City, eseguita e cantata in maniera egregia, che scatena l’apoteosi in tutti i nostalgici amanti della buona vecchia wild music. Una vera e propria zampata con cui i cinque salutano l’idroscalo tra parecchi sorrisi.
Si sa che se qualcosa non va storto durante una data del genere, non si può considerare un vero concerto rock; ed ecco che la sfiga sbuca da dietro l’angolo, portandosi appresso una vagonata di pioggia che innaffia tutti proprio mentre i Mars Volta iniziano a dare spettacolo. E’ il fuggi-fuggi generale alla ricerca di un rifugio, si mettono in moto i venditori di k-way, ma una sostanziale fetta di aficionados rimane imperterrita a godersi lo spettacolo. E mai scelta fu più appropriata, perché la band multietnica si scatena con il proprio, assurdo, mix di generi: dal progressive rock allo sperimental, dal post hardcore al noise.
Nel loro nome sta anche la filosofia della loro musica. Ovvero, il continuo mutare di tecnica e stile, sul credo della volta felliniana. C’è da rifarsi gli occhi (leggi “le orecchie”) ad ogni pezzo, che risulta tanto complicato quanto affascinante, e non annoia mai. Se poi ad una batteria che ha del sovrumano aggiungi un chitarrista che danza furiosamente con i propri arpeggi e assolo, e un cantante che (tra un sorso di thè bollente e l’altro) si prodiga in continui acuti tali da far impallidire un tenore e mai, dico mai, calanti o fuori tono… beh, non si può far altro che levarsi il metaforico cappello e consegnare ai The Mars Volta lo scettro di fenomeni musicali.
Tanto scatenati quanto il diluvio che si abbatte sul parco, sembrano non essere capaci di far smettere di sgranare gli occhi ad un ipotetico nuovo ascoltatore. E di far sorridere, invece, chi li conosce bene.
Concludono con un po’ di stizza nei confronti di un tempaccio che, malauguratamente, ha costretto gran parte della gente a perdersi quella che può definirsi una vera e propria forma d’arte.
Le condizioni meteorologiche sembrano prendere in giro un po’ tutti quando, sul finire del successivo cambio palco, smette così com’è iniziato di piovere. Meglio così, probabilmente, perché tra urla e risate sale la tensione per l’imminente esibizione dei Korn. L’attesa è così elettrica che solo al portare il caratteristico microfono di mr. Davis partono le urla. Qualche goccia di pioggia bagna ancora le teste della folla radunatasi ma nessuno sembra farci caso e, verso le 8, l’imponente batteria con le immancabili due casse attacca un quattro sul charlie e dà via al puro delirio.
Nonostante batteria e basso siano suonati da turnisti (di bravura eccezionale, intendiamoci) è pura estasi fin dalle prime note; Davis si presenta in tenuta da scozzese goth, e il suo particolarissimo timbro di voce non tradisce le aspettative di nessuno. I ritmi sono cadenzati e gli strumenti seguono a ruota una drum impeccabile e implacabile, ogni colpo sulla cassa e sul rullante fa vibrare i piedi di tutti, ben contenti di saltare a ritmo con la musica. Potranno anche essere passati gli anni, ma hanno l’energia delle band appena formate, a cui avrebbero davvero molto, molto da insegnare.
Ad ogni stacco il frontman si rifornisce d’ossigeno da un’apposita bombola posta al lato del palco (spettacolo o necessità?) e ricomincia a far ruggire le casse non steccando mai. Munky Shuffer alla chitarra incita la gente truccato da zombie di cultura sudamericana, Ray Luzier rotea le bacchette ad ogni stop di batteria per poi riprenderle e colpire ancora più forte. Su pezzi come “Freak on a leash” o “somebody, someone” l’idroscalo esplode, sembra di ritrovarsi in mezzo ad un immenso rito vodoo. La fragorosa rabbia sale ad ogni canzone, e non ci sarebbe da sorprendersi se, all’inizio della cover di “another brick in the wall” si vedessero scariche elettriche aleggiare tra il pubblico.
Non ce n’è uno che non canti, che non alzi le mani, che non urli. Il Nu-Metal è vivo più che mai.
Sono ormai le 9 passate, è scesa definitivamente la sera, qualche goccia ancora cade ma siamo ormai al momento clou, quello che le varie migliaia di paganti aspettavano dal primo pomeriggio: attaccano i Nine Inch Nails.
Supportati da un imponente impianto luci, sfoderano tutta la loro carica fin dalle prime battute. Ma, contrariamente alle aspettative, sembra più di assistere ad un concerto punk rock che metal/alternative. Il che non è necessariamente un male, anzi.
L’attitudine di Trent Reznor a cambiare stile e genere musicale progetto dopo progetto è ben nota, e anche qui si fa sentire la differenza. Tuttavia nessuno sembra dispiacersi, sono tutti completamente ipnotizzati dal quartetto sul gruppo, che fa egregiamente il proprio mestiere. La voce è grezza, sembra quasi stentare su ogni nota senza però perder mai l’equilibrio. La batteria ha meno potenza rispetto alle chitarre e al basso (che viene strumentalizzato nientemeno che da Justin Medal-Jonsen), ma qui i ritmi sono decisamente più serrati, nessun respiro per i mostri sacri dell’alternative, e nessun respiro per chi, ammaliato, li osserva.
Tuttavia la band opera, sulle due ore di esibizione previste, una scelta particolare. E in alcuni casi, come questo, particolare non fa rima con “sbagliata”.
Dopo i primi 45 minuti, Reznor si incolla alla tastiera e dà sfoggio delle sue qualità di pianista, allentando così i ritmi e proponendo una serie di ballad che una dopo l’altra si insinuano tra le costole del pubblico. Idea azzeccatissima, perché le oltre diecimila persone presenti hanno decisamente le gambe distrutte, sono in piedi da svariate ore e hanno bisogno (così come la band, si presume) di un attimo di respiro.
Tutti gradiscono la mezz’ora buona di melodie ora dolci ora malinconiche; ma è solo un interludio, perché esattamente da dove avevano interrotto, la band riprende a dar pugni alle note in un maestoso rush finale. Sotto una nuova scarica d’acqua, che in questo caso si mescola al sudore e dà un po’ di sollievo al pogo, il concerto procede man mano verso la fine aumentando il ritmo come un filamento di tungsteno aumenta l’incandescenza. E, sulle note di chiusura, il pubblico travolge i NIN con i migliori ringraziamenti possibili: scrosci infiniti di applausi che durano per parecchi minuti.
Mentre la folla inizia a disperdersi e l’aria a farsi più fredda, non si può far altro che asciugarsi la fronte e pensare che Milano, d’estate, ha dei momenti davvero fantastici.
Dex (giugno 2009)
Fotografie ai NIN by Emanuela Giurano