Traffic free Festival 2009 – Live Report

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Il Traffic è stato fin dalla sua prima edizione nel lontano 2004, qualcosa di più di un semplice festival di musica rock.

Alla base c’è sempre stata la musica con scelte minuziosamente equilibrate fra mainstream e nuove tendenze. Ne sono un esempio l’accostamento, nelle edizioni passate, di Battles o di Hercules and love affair a blasoni come Lou Reed e Patty Smith.

A questo si aggiungano i tanti progetti originali, le mostre, le proiezioni speciali e le sonorizzazioni.

Ma il progetto culturale è andato ben oltre. Il fatto di essere un evento gratuito e di tenersi in un luogo come il parco della Pellerina, che si trova in pieno centro, ha avvicinato tante persone di ogni età e genere il cui interesse di partenza spesso prescindeva da chi si sarebbe esibito sul palco e che non di meno sono stati catturati da suoni che altrimenti, è possibile ipotizzare, non avrebbero mai sentito.

Quest’anno la musica è un po cambiata. Lo spostamento della location nel, seppure suggestivo e bellissimo, parco del castello di Venaria reale ha fatto un po’ perdere l’immediatezza dell’esperienza rendendola, almeno per i torinesi, più macchinosa, per la distanza dal centro, per il luogo transennato, per la mancanza dei preziosi alberi dietro cui si poteva trovare relax e tranquillità mentre tutt’attorno si scatenava il casino.

La gente è comunque accorsa stipandosi negli autobus o, i più fortunati, prendendo l’auto.

 

Dopo la proiezione e la sonorizzazione ad opera di Simonetti e Daemonia di Profondo rosso che ha avuto un grandissimo successo tanto da portare alcune persone ad accapigliarsi per contendersi i posti in prima fila, e l’inaugurazione di varie mostre in giro per la città, ad aprire il primo giorno di concerti c’è Nick Cave.

Le murder ballads con la loro delicata inquietudine sono alle spalle e anche se è ritornato dopo uno dei suoi mille girovagare a suonare con i suoi storici Bad seeds, abbandona le atmosfere più dark per puntare su una maggiore carica rock.

Lui è gasatissimo e canta con il suo proverbiale tono basso e dannatamente cavernoso ( nomen omen).

Passano come un treno in corsa Papa won’t leave you, Dig Lazarus dig fino alla magia, nera, di Henry Lee.

Nonostante l’assenza di Mick Harvey, compagno musicale di una vita, Cave e il suo gruppo mettono in scena un live energico in cui tutto è limato e allo stesso tempo potente e dove la cosa più evidente è la compattezza e la complicità fra gli attempati musicisti che suonano come un unico corpo in un tripudio, bisogna dirlo, di pettinature improbabili anni 70 e mise stile saloon. Il tutto centrifugato in un immaginario da western polveroso molto caro all’artista australiano.

Prima di lui c’erano stati, in apertura, Vittorio Cane, musicista di cui a Torino e non solo si sta parlando parecchio grazie ad una impostazione cantautoriale che molto deve a Bugo e alle sue canzoni oblique, e Dejan Martinelli e i suoi l’Orsoglabro che propongono brani legati alla tradizione delle canzoni popolari e alla musica bandistica.

L’altro ospite internazionale della serata è invece Annie Clark, in arte St. Vincent che mette in fila una dietro l’altra i brani dei suoi due album Marry me e Actor.

La giovane americana avrebbe probabilmente meritato ben altro contesto per le sue canzoni sempre in equilibrio fra dolcezza e sottile rabbia. Molto meglio un club o comunque un luogo più intimo di questa spianata in cui diventa difficile per una musica che punta più sulla raffinatezza dei suoni che sulla muscolarità, farsi godere.

 

Passa così il primo giorno ed in un lampo siamo già alla seconda puntata: il venerdì è la giornata dei Primal scream.

Aprono I Treni all’alba musica agrodolce e rilassante perfettamente inserita nella calura del pomeriggio.

I Ladytron salgono sul palco alle 9 accolti dall’entusiasmo di un nutrito gruppo di fan in prima linea davanti al palco.

Inglesi, dark e anni 80 sono al quarto disco ma è solo con l’ultimo Velocifero che si sono fatti conoscere dal grande pubblico, fino ad arrivare ad aprire diverse date del Tour of the Universe dei Depeche Mode.

Suonano tutti restando assolutamente immobili in una fissità ieratica che ben si addice alla loro dance seria e cupa. L’unica a fare eccezione è Myra Aroio, una delle due front-woman del gruppo che, forse ispirandosi alla Bulgaria, sua terra natia (alcune canzoni dei Ladytron sono proprio in questa lingua) improvvisa balletti a metà strada fra can can e danze da festa in piazza con una leggiadria su cui ci sarebbe da ridire.

Sia la Aroio che Helen Marnie cantano con fare quasi inespressivo, un recitato da cantanti tedesche di Weimar rendendo la performance ipnotica.

La cosa che non convince dei Ladytron è il loro essere tendenzialmente monocorde e la relativa povertà di suoni che per un gruppo elettronico è un limite non da poco. Per il resto la performance scivola senza troppi intoppi e i 5 lasciano il palco dopo mezz’ora.

Gli scozzesi Primal scream, non c’è quasi bisogno di sottolinearlo, sono un gruppo storico.

Dai meravigliosi anni 80 quando facevano rock psichedelico ne è passato di tempo e soprattutto è passato tempo da quel Screamadelica che nel 1993 li aveva catapultati nel mondo delle contaminazioni dance-rave deviando definitivamente il loro percorso stilistico.

Certo Bobbie Gillespie ha i suoi anni però balla e si muove che è una botta di energia anche solo vederlo.

L’inizio con Can’t go back dall’ultimo album Beautiful future del 2008 è sottotono ma, quasi aspettassero il buio per risvegliarsi, il resto è tutto un crescendo di energia e di puro rock&roll fino ad arrivare a Rocks che chiude lo show lasciando il pubblico, per lo meno quello delle prime file sudato e soddisfatto.

 

E così si arriva al terzo e ultimo giorno di concerti. Sono attesi gli Underworld e da subito si nota che il pubblico è diverso dalle altre serate: il popolo del sabato sera discotecaro, che a Torino è parecchio nutrito, è tutto qui. Si sprecano i ragazzi con vestiti luccicanti e facce sfatte già dal tardo pomeriggio.

Apre, com’è da tradizione, un gruppo torinese, i Did e subito dopo, prima dell’arrivo dei due ragazzi di Cardiff, c’è spazio per quello che è il miglior set dell’intero festival.

Con furore da Philadelphia, Santigold,classe 1976, rivelazione del 2007 con un disco, omonimo, di una bellezza tale da portare molti a sostenere che fosse impossibile fosse stata proprio lei a comporlo.

L’americana porta sul palco del Traffic uno spettacolo visivamente fra i più tamarri mai visti ( ma proprio per questo divertente) con abiti attillati, abbinamenti arditi, cappellini da baseball e due ballerine che infiammano il pubblico.

Lei sfodera una voce decisa e potente, balla e si dimena incitando la gente a fare altrettanto mentre la band è all’altezza della situazione mischiando basi elettroniche con batteria e basso.

Il groove è di quelli che funzionano e a colpire è la riuscita contaminazione fra dub, reggae, new wave ed elettronica più smaccata, già presente nel disco d’esordio.

Arrivano una dopo l’altra perle come Les artists e You’ll find a way fino alla finale Creator quando Santigold accoglie sul palco alcuni entusiasti ammiratori ben felici di ballare al suo fianco. Inutile dire che i prescelti se la giocano con i titolari del palco quanto ad eleganza nell’abbigliamento.

L’ambiente è definitivamente caldo per l’arrivo degli Underworld.

Il loro show è però davvero deludente. L’impressione è quella di essere catapultati, con una macchina del tempo, negli anni 90 e di non riuscire ad uscirne. Tanto era sporca la musica di Santigold tanto è pulitina e asettica quella degli Underworld ed ascoltare uno dopo l’altro questi artisti è avvilente perché tutta l’energia della prima pare come ghiacciata mentre l’entusiasmo diventa di maniera e vagamente frigido.

La domanda è se abbia senso fare tecno in questo modo nel 2009 e la risposta è evidentemente positiva per i tantissimi che hanno ballato forsennatamente per tutto il tempo.

Sarà, ma l’atmosfera che si respira è piuttosto retrò e non per questo affascinante.

Qualche guizzo oltre la cassa in 4, la danno gli sporadici inserti drum&bass (il massimo della trasgressione) e qualche suono jazzato. Il resto è noia.

Quando arriva Born slippy anche gli astanti sdraiati si ridestano e vanno a ballarsela.

La gente ha gradito, sarà che è sabato sera.

A seguire suonano i nostrani Crookers e Bloody beatroots che continuano a fare muovere i più instancabili ballerini.

Termina così questa edizione del Traffic free festival, quella della trasformazione come è stata definita dagli organizzatori, sicuramente difficile da mettere su a causa dei minori sovvenzionamenti arrivati dagli enti pubblici e dagli sponsor ma che, guardando anche all’adesione e all’entusiasmo del pubblico, ha avuto un esito positivo.

Aspettiamo gli sviluppi per l’anno prossimo.

 

 

 

 

Claudia Pinna (luglio 2009)

 

 

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